In questa sezione, trovate risorse, supporto e consigli dedicati a coloro che stanno affrontando il dolore della perdita di un animale domestico. Qui potete trovare comfort, condividere esperienze e trovare modi per onorare il vostro compagno a quattro zampe. Dal dolore alla guarigione, questa categoria offre un rifugio virtuale per coloro che cercano comprensione e sostegno durante il difficile processo di elaborazione del lutto per un amato animale domestico.

Come aiutare il mio animale con una malattia incurabile

Come aiutare un animale a cui hanno diagnosticato una malattia inguaribile: non solo i farmaci curano, anche “il prendersi cura” fa stare meglio…

Willy, l’umiltà del piccolo coyote

Marco Neirotti – Storie e pensieri.

Pubblico la lettera che la famiglia in cui viveva Willy ha scritto, dopo la sua morte, per ricordarlo.

Vorrei che fosse la prima di molte dichiarazioni di amore che, chi lo desidera, potrà condividere con i lettori di questo blog: parlare del proprio animale che ha attraversato il Ponte dell’Arcobaleno non è sempre facile e sovente è difficile trovare un interlocutore che ci ascolti e questo potrà essere un luogo dove ciò sarà possibile….

L’autore del testo è Marco Neirotti, scrittore e giornalista italiano, autore di romanzi, saggi, traduzioni e inchieste giornalistiche. Dopo l’apprendistato sull’inserto Tuttolibri, ha iniziato a collaborare con La Stampa dal 1978 ed è stato insignito del Premio Saint-Vincent per il giornalismo nel 1998.

Storie e pensieri è il suo blog : http://www.marconeirotti.it/2020/02/24/willy-lumilta-del-piccolo-coyote/

Willy non era un coyote e neanche somigliava allo sciamannato personaggio dei cartoni . Ma sedici anni fa mia figlia lo portò a casa piccolino e lo chiamò così.

Di tutti i nostri familiari a quattro zampe tendiamo a ricordare qualcosa di speciale: un gesto d’eroismo vero o presunto, un’intuizione, una sintonia, un episodio da gran protagonista. Di speciale Willy aveva gli aspetti più rari: una pacata normalità, una serafica umiltà, un’accettazione che non perdeva mai la dignità. Piove? Ci bagneremo un po’. Un caldo torrido? Andrà bene una mattonella in cotto del pavimento.

Willy – un incrocio tra un bassotto e qualcuno più corpulento – liquidava alla svelta la sua ciotola e se un altro dei cani era veloce a fregargli un po’ di cibo non protestava. Si metteva in movimento con calma, quasi trasparente benché cicciottello e faceva il giro delle ciotole altrui. Nelle ultime sere continuava il suo tour, ma poi si fermava e ributtava fuori tutto quanto, tornando a cercare altro cibo e ributtandolo fuori. Così anche ieri sera, prima di addormentarsi. Ma questa mattina non si è svegliato più.

Con Willy non se n’è andato tanto un “personaggio” quanto una creatura meno diffusa eppure molto preziosa: un biografo. Lui viveva con gli altri e li studiava. Ha convissuto con parecchi cani, stando un po’ appartato, più vicino alle persone che ai suoi simili, e osservandoli come se raccogliesse appunti, materiale, memoria. E’ stato accolto dal principe di casa, il mitico Joyce, ha ricevuto qualche coccola da Yuby, mezza alsaziano e mezza husky, ha fatto un po’ di comunella con Lana, mezza yorkshire e mezza barboncina, ha sopportato la prepotenza di Kira, mezza pittbull e mezza cane da caccia, ha accolto Alec, mezzo pointer e mezzo cane da tartufi, e dopo di lui Draco, il corso, e ancora Mel, mezza lupo cecoslovacco e mezza lupo americano. Qualcuno l’ha visto svanire – chissà che idea si era fatto della morte? – e di qualcun altro ha sopportato di buon grado le esuberanze festaiole giovanili. Sempre imperturbabile, con una sorta di filosofia canina basata sull’esperienza: e che sarà mai? perché rincorrere un gatto? perché precipitarsi a far tanto chiasso al cancello?

La sua specialità era l’ora dell’aperitivo delle persone in giardino. Se Kira e il giovane Draco si lanciavano in furibonde similitudini di lotta, provava a infilarsi: o era cacciato con un ringhio, lui più piccolo e tozzo e ora anche un po’ sordo, o del tutto snobbato. Allora veniva a piazzarsi sotto il tavolino e quando gli altri, stanchi, arrivavano a disporsi in cerchio, li guardava come togliendosi una soddisfazione: di qua noi umani, di là voi animali. Quella sfida la pittbull la sentiva e ogni tanto sferrava un attacco per nulla giocoso. Ma accanto al bianco frizzante c’era la caraffa dell’acqua fredda che, versata sul muso, le spegneva gli ardori e le rinfrescava le idee. Willy le leccava il naso bagnato ed era pace.

Si dice talora dei cani: “Non chiedono altro che due coccole”. Non abbiamo mai visto Willy andare in cerca di coccole. Lui era il cane-ombra: mia moglie andava in un’altra stanza e lui, lento, con un po’ d’artrosi e il passo piatto, dietro. Lei chiudeva una porta e lui si accoccolava lì. Quando lei tornava, le tornava insieme. Negli ultimi tempi erano diventate ardue le scale. Allora la sera, con una mano sotto il sedere, gli rendevo più lieve il peso da sollevare con zampe che non riuscivano a dare slancio. Per la mattina avevamo inventato un gioco divertente per tutti e due: seduto sui gradini, me lo caricavo in braccio e scendevo uno scalino alla volta col sedere, faceva versetti compiaciuti come se lo avessi portato sulle giostre.

Ecco che cosa ha insegnato la sua “speciale” normalità: non c’è nulla di obbligatorio, nulla di sensazionale è necessario, si condivide qualcosa con naturalezza, secondo le condizioni e i bisogni Negli ultimi tempi, quando mia moglie usciva Willy si rattristava, allora – vista la fatica delle scale – prendevo dallo studio libri, carte, penne e mi trasferivo in cucina a lavorare, così da essergli compagnia e, all’occorrenza, portinaio. Dormiva beato, ogni tanto si svegliava, veniva a controllare dov’ero, si prendeva qualche carezza e tornava a sdraiarsi. Ed era come dicesse: vedi amico mio? non ci vuol niente ad esser sereni, è tanto normale non chiedere mai mai mai niente.

Marco Neirotti

Randagi di pace, uomini d’odio

A donne e uomini emarginati e oppressi ho dedicato il romanzo che sarà in libreria giovedì. Ma è dedicato anche alla memoria di un cane che scelse per sé la mia famiglia. E, attraverso lui, a tutti i randagi che ho incontrato e a quelli con i quali non ho avuto la fortuna di condividere vita.

Ti ammazzerò stasera (Golem edizioni) racconta la tempesta d’odio – spontaneo e pilotato – che investe una pacifica comunità all’arrivo d’un gruppo di migranti. A contrastare la ferocia sono un drappello di carabinieri, un ex galeotto e i randagi che vivono con lui. Quando sono in gruppo li chiamiamo branco, ma sono una famiglia e a far branco sono le persone. Diceva un grande scrittore e grande uomo al quale devo molto “L’animale vuole essere rispettato, e a distanza, quando mangia. Poi ridiventa socievole. L’uomo è animale socievole solo quando mangia. Prima e dopo uccide e si fa uccidere: la sua giungla è più lunga” (Giovanni Arpino, Diario bestiario).

Ho frequentato cani e gatti randagi a casa mia, su e giù per l’Italia, all’estero. Ricordo maestosi cani da pastore in fuga dal terremoto che arrivarono sfiniti a Rocca di Cambio (sopra L’Aquila, a 1400 metri): nel buio di certe notti  “chiacchieravo” con loro nel rifugio che gli aveva preparato Amerigo, il proprietario dell’albergo, da quell’incontro rimasto un caro amico. Ricordo gli imponenti e malconci “tibetani” affamati intorno ai monasteri del Sikkim: “Stai attento, pazzo”, mi ammoniva Alberto Bevilacqua quando portavo resti di cibo. Poi però venne a conoscerli anche lui. Ricordo squadre di randagi a caccia di cibo – militareschi dietro il capobranco – in un’Albania precipitata nel caos dal tracollo economico del 1997: cercavano avanzi nei cestini accanto ai mercati, ma i cestini erano troppo in alto: nelle notti tormentate di Tirana andavo a scovare pezzi di frutta o formaggio scartati per porgerli a loro. Fu fantastica la faccia del portiere di notte dell’hotel Dajti quando li vide schierati sul marciapiede ad aspettarmi e poi seguirmi come una scorta.

Tutti fratelli lontani di Joyce. Forse figlio d’una scappatella materna e forse creduto da piccolo un border collie, fu con probabilità scoperto piccolo bastardo disinteressato alle pecore. Dal comportamento dedussi che avevano cercato di insegnargli il lavoro a forza di botte. Per questo se ne andò e si sistemò a vivere sotto la pensilina dei pullman che collegavano il paese del Pinerolese con Torino. Fu lui a sceglierci – un uomo, una donna, una bambina in un passeggino – e ci seguì a distanza.

Arrivati davanti casa rimase incerto, ci guardò entrare ma non sfidò la siepe del giardino. Lasciammo tutto aperto e guardammo dai vetri. Pian piano, avanzando e arretrando e ancora avanzando, venne a curiosare, alla fine infilò il muso nell’ingresso. Si acquietò sotto le carezze, ma se una mano afferrava una scopa per ramazzare due briciole, strisciava indietro, mostrando i denti.

Si muoveva come su una nuvola, non lo si sentiva. Guardava la strada dal terrazzino in silenzio. Nessuno, nemmeno i padroni di casa – amici cari che abitavano al piano sopra della costruzione bifamiliare – si accorsero di lui. Andai ad avvertirli del nuovo arrivo ma furono tassativi: “Cani no”. Non indagai e non litigai. Caricai il randagio in auto, lo portai al canile: “Non lo affidate a nessuno, torno a riprenderlo al più presto. Intanto verrò ogni mattina per portarlo a passeggio”. Uscito dal canile andai all’edicola, comperai L’Eco del Chisone, il giornale locale, e cominciai a cercare nuova casa in affitto. La trovai in un paio di mesi. In quelle settimane ogni giorno mi alzavo in anticipo, andavo dal mio amico e via per i prati: “Non lo liberi, può perdersi”, raccomandavano premurosi operatori. Li rassicuravo e poi, appena girato l’angolo, sganciavo il guinzaglio e lo guardavo correre e tornare. Il quinto giorno gli presi il muso fra le mani e gli dissi: “Ti hanno chiamato Jolly, ma non è adatto a te. Per te ci vuole qualcosa di importante”. Per non cambiargli troppo il suono, lo chiamai Joyce.

Fatto il trasloco andai a prenderlo. La nuova casa era una larga villa divisa in verticale, con tre famiglie, un giardino comune, tre porte allineate. Sceso dall’auto, Joyce studiò l’edificio, la recinzione, l’erba, poi senza incertezze andò alla porta dietro la quale c’erano mia moglie, mia figlia e il gatto Valium (trovatello pure lui) che all’inizio fu diffidente, poi gli si affidò del tutto: gli si sdraiava contro e gli zampettava sulla pancia, quando sbucava un gattone estraneo e agguerrito correva a rifugiarsi dietro il suo fratellone che, senza fracasso, si limitava a far sentire un ringhio.

Fu un amico prudente, riservato, attento, soprattutto equilibrato. Quando camminavamo per strada, al mio fianco senza guinzaglio, qualcuno mi faceva complimenti per come l’avevo addestrato. Lo stesso al ristorante, dove si sdraiava sotto il tavolo, nulla chiedeva, volentieri accettava senza prender l’abitudine di pretendere. A una festa di mia figlia piccola si piazzò all’ingresso: annusava appena gli ospiti, come se dall’odore si dovesse decidere chi far entrare e chi no. “Bell’addestramento”, dicevano. “E’ nato già imparato”, rispondevo.

Era in guardia e teso a un semplice tono di voce prepotente ed era delicato con i fragili. Una sera mi precedeva verso casa. Svoltai all’angolo della via e lo vidi seduto accanto a un uomo su una sedia a rotelle. Imbarazzato domandai: “L’ha spaventato?”. “Affatto. Aspetto mi aprano lo scivolo e lui si è seduto qui come lo vede a farmi compagnia. Ha soltanto ringhiato quando sono passati quei due ragazzi rumorosi che venivano dalla sua parte”.

Faceva la guardia, ma soprattutto era vigile nella difesa della persona. Una volta, in un prato, ci venne incontro un contadino incazzato, forse un po’ bevuto. Agitava un rastrello contro di noi come fosse la falce della morte. Joyce scattò senza un suono, lo aggirò, fin  sotto il suo braccio destro e cominciò a ringhiare. Il poveretto si voltava per colpirlo, ma lui ruotava con lui, restando sempre dalla parte dove a quell’altro era impossibile piegare il gomito. A forza di girare su stesso, il randellatore vacillò stordito. Fui lesto a sorreggerlo e Joyce non ebbe nulla da eccepire, ma prese tra i denti il rastrello e lo trascinò più lontano.

La sera tardi andavamo a passeggio per il paese. Davanti ai giardini mi fermai a chiacchierare con i carabinieri di pattuglia. Il maresciallo notò una sagoma che, scorta l’auto con le insegne, si rifugiava lesta tra le piante dei giardini. Chiamò: “Chi è là? Vieni fuori”. Silenzio. Joyce, senza ricever comandi, scattò. Sentimmo una voce: “Maresciallo, richiami il cane e io arrivo”. Battei le mani e Joyce tornò: camminandogli di lato, a distanza.

Traslocammo ancora per venire nella vecchia casa di famiglia, in campagna, approdo di tanti animali. Un pomeriggio andai al camposanto, dove sono sepolti i miei genitori e portai Joyce con me. Non era mai stato in quel luogo. Al cancello mi precedette, girò sulla destra e sparì. Quando arrivai alla tomba di famiglia era lì seduto come guardasse le lapidi. Stupefatto raccontai l’episodio a Giorgio Celli, etologo e scrittore, e Celli mi disse: “Tienitelo per te, altrimenti diranno che alzi castelli su una casualità”. Eppure, obiettai, c’è qualcosa di straordinario. “E’ semplice: quel cane è in totale sintonia con te”

Anche Joyce invecchiò. Dopo sedici anni in piena salute, cominciò a star male. Il suo dottore, mio cugino Franco Fassola (che già l’aveva guarito da una filaria appena entrato in famiglia) mi fece respirare la realtà: “Adesso non staccarsi da lui è egoismo crudele”. Venne a casa, ci piazzammo su un divano come per chiacchierare, Joyce mi salì a fatica in grembo, si sdraiò e mentre mi guardava l’anestetico gli chiuse gli occhi.

La cremazione degli animali allora era collettiva, ma io volevo Joyce, non ceneri simboliche. Andai sulle colline del Verbano, pagai il necessario per aver l’impianto tutto per lui, lo adagiai io nel piccolo antro ancora gelido e gli diedi un bacio. Tornai a casa con le ceneri in una cassettina di legno, da allora rimasta su una mensola dello studio davanti a me.

Per dar vita al “meticcio con gli occhi bianchi” del romanzo ho preso la cassettina in legno e l’ho messa sulla scrivania. Ciao Joyce. Grazie ancora.

Autore articolo:

Marco Neirotti

Marco Neirotti, nato a Torino nel 1954,  autore di testi di narrativa (Assassini di carta, Marsilio,1987; In fuga con Frida, Marsilio, 1991; La vocazione del falco, Mondadori, 1998; Anime schiave, Editori Riuniti, 2002), saggistica (Invito alla lettura di Fulvio Tomizza, Mursia 1979; Fabrizio De André, Eda, 1982), e traduzioni (tra queste Tartarino di Tarascona di Alphonse Daudet, Sei editrice).
Website: http://www.marconeirotti.it

Gatti senza paradiso

In questo articolo si racconta, in modo volutamente molto soggettivo, l’esperienza dell’eutanasia dei gatti vista dalla parte della cliente, di chi porta gli animali dal veterinario. Si tratta però di molte esperienze, ripetute nel corso degli anni, e rielaborate, nel tentativo di connettere e dare senso a vari aspetti, emozionali, relazionali, affettivi, forse anche spirituali.

Nel 1981 ho portato tre gattini trovatelli – che avrei tenuto e cercato di sistemare – da un famoso veterinario di Milano. La loro età era di circa 50 giorni, erano vitali e allegri, privi di scoli oculari, rinite e simili, uno era particolarmente bello, tigrato scuro con il pelo semilungo, però avevano una chiazzetta di alopecia sulla fronte. Era tigna. Il veterinario mi disse che era incurabile e li soppresse con una iniezione di Tanax nel cuore, senza nessuna sedazione. Ricordo ancora l’urlo dei gattini. Non so se questa si possa chiamare “eutanasia”, che significa “buona morte”. Da allora ho sempre avuto in casa più di un gatto e il rapporto che si ha con un gatto “unico” o con più gatti è qualitativamente diverso, non è solo questione di quantità. Da allora mi occupo di gatti, senza essere di nessuna associazione, praticamente (li accolgo, li porto dai veterinari, li curo, li colloco o li rimetto in colonia e così via) e teoreticamente (scrivo articoli e libri). In questa attività mi è anche capitato di portare parecchi gatti a morire, miei e di altre persone, randagi conosciuti o anche sconosciuti, per esempio trovati investiti. Non ho mai portato cani o altri animali. L’eutanasia di un animale comporta problemi diversi, medici, morali, affettivi, economici, emotivi, per esaminarli tutti in modo approfondito servirebbe lo spazio di un’enciclopedia. L’aspetto cruciale di questa decisione, sempre difficile e angosciante, è capire con chiarezza che cosa è meglio per l’animale, in un momento in cui la chiarezza è poca. Sull’animale si scatenano infatti fantasie e proiezioni psicologiche non sempre gestibili. Per esempio, l’animale può diventare una parte di sé o il capro espiatorio della propria distruttività. Non so se sia compito del veterinario aiutare il proprietario in questa gestione emotiva, forse egli dovrebbe solo accettare che esiste tutta questa parte “non scientifica” nella relazione tra lui, l’animale e il proprietario. Molto veterinari ancora non si rendono conto di tutto ciò o lo rifiutano, considerando gli aspetti non strettamente medico-tecnici qualcosa di spurio. Per gli esseri umani l’eutanasia non esiste, ed è questo forse uno dei rarissimi casi in cui la situazione degli animali è migliore della nostra, ma quando arriva la morte non è il medico che si occupa degli aspetti psicologici e spirituali del dolore dei sopravvissuti, semmai il sacerdote o il rabbino, comunque un religioso, e/o la famiglia, in rari casi gli amici. Tornando agli animali, spesso non è evidente senza alcun dubbio che il gatto ha finito la sua vita oppure che la sua sofferenza è intollerabile (oltretutto, è pochissimo che in Italia ci si preoccupa del dolore degli animali e della sua gestione). Il proprietario si chiede: lo sopprimo perché lui non tollera più la situazione o perché io non tollero più la situazione? E questo può succedere per motivi diversi, perché io soffro troppo ma anche perché non ho più il tempo e/o l’energia per curarlo. L’accudimento dell’animale può infatti entrare in conflitto, per motivi pratici o emotivi, con il lavoro o altri impegni. Tra l’altro, in orario di lavoro, non sono previsti permessi per andare dal veterinario.

Nella scelta dell’eutanasia, i dati tecnici (come l’età, i parametri del sangue, la funzionalità renale ecc) aiutano ma non del tutto. Un esempio di questa situazione di incertezza può essere quella di un gatto in discrete condizioni di salute ma Felv positivo. La scelta dell’eutanasia mette in gioco importanti valori e concezioni personali, come il significato della vita e della morte, e non soltanto degli animali. Inoltre, può succedere di accorgersi di provare sentimenti poco accettabili, di cui ci si vergogna. Per esempio ci si rende conto di fare una gerarchia affettiva tra i propri gatti, di avere delle preferenze, di sentire in modo diverso il peso della morte a seconda di quale animale colpisce. Oppure ci si accorge che è più facile accettare la soppressione di un gatto malato che ha comportamenti fastidiosi, tipico “l’eliminazione inappropriata”. Un altro enorme problema è l’eutanasia – che sarebbe più corretto definire “soppressione eutanasica”, ma per il proprietario la giusta definizione non cambia la sostanza della cosa – di animali sani ma che hanno disturbi comportamentali (che talvolta sono causati dal comportamento inappropriato del proprietario).

A questi e altri motivi psicologici si associano quelli economici. Se la cura è troppo costosa – e quel “troppo” è diverso da persona a persona – si sceglie l’eutanasia. Sembra un comportamento squallido, ma è reale e razionale. Credo invece sia immorale non far fare l’eutanasia nascondendosi dietro la propria sensibilità. Ci sono proprietari che non fanno sopprimere il proprio animale perché non se la sentono di affrontare questa scelta e così lo lasciano soffrire e agonizzare, sentendosi però “buoni”. Oppure si giustificano con la retorica del “lasciar fare alla natura”.
Ci sono anche quelli che non fanno fare l’eutanasia semplicemente perché costa troppo (e l’eutanasia con lo smaltimento del cadavere è davvero costosa, ci sono persone che si fanno consegnare il corpo dal veterinario dicendo che lo seppelliscono in campagna e poi se ne sbarazzano pur di risparmiare almeno qualcosa). Anche quando la scelta dell’eutanasia è certa, indubitabile dal punto di vista medico, comunque è una grande sofferenza. C’è la perdita dell’animale, del suo affetto, della sua personalità, diversa da quella degli altri. Subentrano sensi di colpa, più o meno giustificati, per non essere stati bravi padroni, per non averlo curato abbastanza, per averlo sgridato troppo, per non avergli concesso qualche capriccio e così via.
Si ha inoltre la sensazione tremenda del tempo che passa, dell’inevitabiltà della morte propria e per tutti. Per certi aspetti, inoltre, la morte dell’animale è più drammatica di quella degli esseri umani. Noi infatti abbiamo qualcosa che rimane, in termini religiosi l’anima, in termini più laici le opere che abbiamo fatto, i ricordi che gli altri avranno di noi, il segno, buono o cattivo, che abbiamo lasciato sul mondo. L’animale muore e basta, è finito, è il nulla, questo è tragico e disperante. Qualcuno crede nella possibilità di reincontrare i nostri animali d’affezione nel Paradiso, ma è un’ipotesi piuttosto difficile da accettare. Per la morte dell’animale inoltre non c’è la possibilità di elaborare il lutto, cosa che richiede un contesto sociale. Non sto parlando dei cimiteri per pets, che mi sembrano anzi fastidiosi e inutili, ma della scarsa considerazione riservata a queste morti.

Ricordo che ai bambini con le unghie sporche, listate di nero, si diceva: “Ti è forse morto il gatto?”, un modo di dire che esprimeva la totale irrilevanza della morte del gatto. Appena un po’ più significativa è la morte del cane, celebrata già nell’Odissea e in qualche opera letteraria (per esempio, nel romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera).
Il proprietario di gatti, anzi, ex-proprietario, che soffre, lo fa quasi sempre nella solitudine, nella incomprensione sociale, talvolta nel disprezzo da parte degli altri. Anche in questo la percezione della morte dell’animale è molto diversa da quella di un umano, dove comunque chi sopravvive è circondato dalla comprensione sociale, da riti religiosi o civili, da un’antica elaborazione collettiva, funerali, discorsi, condoglianze, riflessioni in saggi, film, romanzi e poesie. Mi accorgo che sto parlando di morte più che di eutanasia, ma per un padrone cosciente le due cose si equivalgono, difficilmente un gatto accudito muore senza eutanasia, a meno che vada sotto una macchina o cada dal settimo piano. Quale può essere il ruolo del veterinario in tutto ciò? Non credo sia possibile affibbiargli l’impossibile compito di capire il proprietario. Certo gli si può chiedere di usare un anestetico prima del Tanax e di non tormentare l’animale per trovargli la vena. A parte questi dati tecnico-medici, sono possibili comportamenti diversi. Conosco una veterinaria che non vuole che si parli di uccisione, di eutanasia, davanti all’animale, perché egli capisce, se non le parole, il senso di cosa sta succedendo. Ci sono veterinari che sbattono senza alcuna gentilezza il gatto sul tavolo di metallo, igienico ma così freddo e sgradevole, e parlano ad alta voce, e fanno rumore, “tanto ormai deve morire”. E c’è chi ha modi gentili e rispettosi anche in questa ultima operazione. C’è chi accetta, anche senza molte parole, la reazione emotiva, magari anche il pianto, del proprietario. C’è il veterinario che invece considera una stupida debolezza questa reazione. Cominciare a parlarne mi sembra già una buona cosa. Credo inoltre che bisognerebbe discutere anche dell’uccisione dei “non pets”, degli animali da reddito, dei milioni di bovini, maiali, polli, sterminati per motivi alimentari o sanitari. Esiste per loro qualcosa che assomiglia, anche vagamente, a una buona morte?

Dalla parte del proprietario: il cordoglio ed il lutto per la morte del proprio animale

Per capire cosa accade nel momento dell’eutanasia e quale strategia adottare per affrontarla dobbiamo partire dal soggetto dell’intervento: che non è l’animale in quanto singolo bensì la relazione che si sviluppa tra quello ed il suo proprietario. Dare un buon servizio in quel frangente così delicato impone al professionista un profondo coinvolgimento empatico nei confronti del partner umano, tecnicamente definito come “Pet Loss Counseling”, consistente nell’assunzione dei ruoli di consulenza e di mediazione. L’eutanasia in quest’ottica assume la connotazione di pratica ad alta densità professionale, che riesce a configurarsi come “terapia del morire con dignità”.

Parlare di eutanasia è difficile, perché è difficile qualsiasi pensiero e discorso sulla morte. È difficile perché è doloroso e perché la morte rimane fondamentalmente, finchè non la incontriamo personalmente, un mistero. D’altronde un viaggio trasversale nella letteratura attesta l’esistenza di ben pochi contributi relativi alla pratica eutanasica in veterinaria: e sono molteplici le radici all’origine di questo silenzio. È un momento professionale che apre molteplici interrogativi, senza poter essere costretto nella sua dimensione meramente tecnica, che finirebbe per comprimerne il carattere emotivo, affettivo, relazionale ed etico. L’eutanasia non è solo un’iniezione: si inscrive in un sistema di significati, fantasie, aspettative di più protagonisti:

  1. il rapporto uomo-animale, così come si è creato nel corso dei secoli e nella sua attualità
  2. le rappresentazioni culturali della morte
  3. le rappresentazioni culturali dell’eutanasia da parte dei medici veterinari
  4. il proprietario in quanto individuo, nelle sue componenti di personalità, cultura, sesso, età, professione, stile di vita, relazioni famigliari…
  5. il veterinario nella sua veste professionale ed individuale, nel suo modo di intendere il mandato professionale e la mission del servizio che offre
  6. i fenomeni psichici relativi al lutto, nel proprietario ma anche nel professionista

Per capire cosa accade nel momento dell’eutanasia e quale strategia adottare per affrontarla dobbiamo partire dal soggetto dell’intervento: che non è l’animale in quanto singolo bensì la relazione che si sviluppa tra quello ed il suo proprietario. In questa osservazione si allineano e convergono discipline diverse, quali la zooantropologia, il Service Marketing e la psicoanalisi, sottolineando con forza che ciò che viene portato in ambulatorio è un affetto, cioè una relazione. Troppo spesso il veterinario misconosce questo profondo e complesso legame, o lo sottovaluta incorrendo nell’errore che storicamente ha compiuto la medicina nella società moderna, identificando la sua missione nella cura della patologia (il disturbo fisico) e trascurando l’esperienza della malattia, l’esperienza umana. Il proprietario ed il suo animale sono una coppia ed il legame che li unisce è molto profondo: è a tutti gli effetti un legame di amore. Che riguarda non solo l’uomo dal momento che molti studi oramai attestano la biunivocità e la reciprocità di questo scambio affettivo. Gli animali sono in grado di attivare operazioni cognitive ed emotive molto complesse, soprattutto i mammiferi, che sono dotati di un cervello “emotivo” sostanzialmente simile al nostro.

Quello che si stabilisce con l’animale d’affezione è un vincolo di attaccamento, con precise componenti affettive. È un legame basato sullo scambio e la reciprocità anche se è fortemente asimmetrico. Prova ne è la profonda differenza che intercorre nella relazione che l’essere umano può stabilire differentemente con un cane o con un peluche… Con i nostri animali si crea un vero scambio affettivo, si costruisce un mondo che è lo scenario della relazione, ricco e complesso, che riveste per l’uomo un’importanza immensa sotto il profilo psicologico. Si crea un dialogo, “battito cardiaco dell’esistenza umana” (Kaplan), che risponde al nostro bisogno di attaccamento e di sviluppare relazioni. Un rapporto che è vitale in quanto reciproco.
Pensiamo allora a quando questo legame si spezza. A quando il rapporto finisce non per volontà o sfinimento ma perché si verifica quell’eventualità disgraziata e blasfema in cui un polo della “diade” deve decidere di “uccidere” l’altro… È un’angolatura, questa, che certamente accentua le coloriture emotive del contesto ma che forse proprio per questo può costituirsi come una prospettiva migliore per avvicinarsi alle emozioni del proprietario, aggiungendo alcuni elementi per comprenderne il dolore, la disperazione, le titubanze, le ambivalenze…
La morte, qualunque morte, prima di tutto fa paura A tutti. Umilia il nostro sguardo, ci riconduce alla dimensione di creature, ci fa tornare noi stessi. C’è stato un tempo in cui la morte era sentita come una realtà domestica, familiare: faceva parte del mondo quotidiano, era un momento importante della vita collettiva. Oggi è una realtà oscena, da nascondere. Non è evento naturale ma sventurato, il risultato di un incidente, un guasto. L’individualismo ne ha privatizzato la forma riducendo la solidarietà ed i significati condivisi così come la sua “medicalizzazione” rappresenta un tentativo estremo di rimuoverla dal nostro piano esistenziale. Eppure la morte non è un fenomeno puramente individuale: coinvolge infatti il gruppo e la collettività, la società perché chiama in causa il modo in cui le culture “leggono” la morte e la integrano nel loro tessuto di credenze e comportamenti.
Più si rimuovono l’angoscia di morte ed i sentimenti panici, depressivi, inquietanti connessi all’esperienza della caducità e del limite più si perde la possibilità di entrare in contatto con le fondamenta della nostra sensibilità. Gli aspetti più istintivi e naturali della condotta umana sono schiacciati ed organizzati in modo artificioso. Le emozioni più forti ed i moti dell’animo più profondi vengono vissuti con un senso di vergogna di insicurezza, e giudicati dalla collettività quasi come manifestazioni di debolezza e di fragilità. L’imbarazzo di fronte alla morte e l’incapacità di esprimere autenticamente commozione e turbamento alimentano la necessità di occultare continuamente quell’evento doloroso. Allora la fuga davanti al morente esprime non soltanto l’angoscia di morte ma anche un più profondo desiderio di fuga da sé stessi, dalla sterilità di un’esistenza che proprio nei momenti più cruciali non trova valore. Galimberti ci ricorda che l’etimologia di “sentimento” rimanda all’esistenza di un contenitore, la mente, che tiene insieme (syn) gli opposti, senza espellere l’uno a vantaggio dell’altro. Per provare sentimenti occorre tollerare tutte le esperienze, le ambivalenze, il bene ed il male che coesistono l’uno a fianco dell’altro. Altrimenti c’è indifferenza, che è una forma di difesa. Morte e vita sono nell’inconscio coppie complementari: ecco perché la piena esperienza della vita implica l’accettazione ed il contatto profondo con la morte…
L’odierno occultamento della morte nasconde, in realtà, la nostra grande paura e smaschera l’impreparazione culturale di una società i cui membri si riconoscono incapaci di convivere con l’idea di finitezza e transitorietà, l’idea che ciascuno di noi è implacabilmente destinato a scomparire. La vicinanza della morte evoca risposte primitive, spesso caotiche e contrarie a tutte le aspettative. Ma attenzione allora ad applicare le categorie della razionalità in un processo che non può che generare irrazionalità. Ma che dire della morte del proprio animale da compagnia? Come accostare il discorso della transitorietà dell’esistenza umana alla scomparsa di un “semplice” animale? Si potrebbe obiettare in prima battuta che non si possono applicare alla sua morte le stesse categorie interpretative che guidano la comprensione del lutto nei confronti di esseri umani. Ma, inaspettatamente forse, questa obiezione non ha fondamento per due ragioni: innanzi tutto perché il LEGAME è un legame d’amore, e replica la facoltà vitale dell’essere umano dello stabilire rapporti affettivi di reciprocità. A ciò si aggiunge il fatto che il concetto di LUTTO in psicoanalisi ha un significato ampio, inerente qualsiasi esperienza di perdita del legame, persino a prescindere dalla morte reale. Noi sperimentiamo la morte sotto diversi aspetti: ogni perdita o commiato è in termini psicoanalitici e dunque interni un lutto. Nella vita ci accomiatiamo continuamente, e non solo dalla persone, ma anche da aspetti della nostra personalità o della nostra vita o da progetti. Molti proprietari sono sorpresi dall’intensità del cordoglio che vivono per la morte del loro animale da compagnia. Non c’è da sottovalutare che la perdita di un animale può riattivare altre esperienze di lutto della persona: ad esempio la morte del coniuge, che sembrava già superata. O quella di un figlio. Questo comunque capita sempre nel lutto: ogni nuova esperienza attiva la sensazione di perdere di nuovo tutte le persone che si sono perse in precedenza.

L’espressione “elaborazione del lutto” è di Freud, il padre della psicoanalisi, e risale al 1915. Si riferisce ad un lavoro psichico che comporta forza, movimento, fatica e spostamento di accenti, di attenzione, di priorità, di ottica. Il lutto implica la ristrutturazione di un nuovo rapporto con sé e con il mondo in seguito alla perdita dell’altro ed alla perdita di quanto di noi era legato all’altro. Non sono molti gli studi che hanno accostato e riflettuto sull’esperienza psicologica umana della morte: nemmeno nel campo della medicina umana. Quello che rimane il riferimento fondamentale è il pensiero di E. Küler-Ross nel suo lavoro di accompagnamento ai morenti, riconosciuta come esperta di fama mondiale rispetto alle emozioni ed agli atteggiamenti che caratterizzano il paziente, i famigliari ed il personale a contatto. Anche i rari contributi nel campo veterinario, tutti di origine anglosassone, utilizzano le sue categorie per descrivere i sentimenti dei proprietari, le reazioni che esibiscono e le strategie per affrontarle. Riportano così una sequenza comportamentale caratterizzata dapprima dal rifiuto e dall’isolamento, poi dalla collera (naturalmente difficile da tollerare da parte dei professionisti, perché si riversa pretestuosamente su di loro), infine dalla depressione. Se la persona ha avuto il tempo sufficiente per “elaborare” queste fasi ed è stata aiutata potrà allora approdare all’accettazione. È il segno che avrà cominciato a ristrutturare il rapporto con la sua bestia, con sé stesso e con il mondo.

L’elaborazione del lutto riguarda il processo lungo ed emotivamente difficile di guarigione da questa malattia dell’anima. Non è solo un distacco ed un abbandono ma anche una ricostruzione del nostro mondo interiore e del rapporto con la vita che conduciamo. Perdere un amore è un po’ morire, è veder svanire una parte di noi, della nostra esistenza, quella che esisteva assieme a quell’affetto. Ecco dove sta il significato VITALE delle nostre relazioni. La morte uccide una parte di noi: quella che amava quell’affetto. Non si potrà più essere uguali a prima. Il rapporto con l’animale crea un mondo comune solo ai protagonisti che lo creano e vivono, che l’esperienza della morte distrugge. Questo credo sia ancora più vero per la relazione con l’animale, perché è basata molto sul gesto e poco sulla parola, sulla comunicazione non verbale, molto più pregnante ed “antica”, profonda, regressiva. L’elaborazione del lutto dovrà allora consistere nell’elaborazione di un nuovo rapporto con il mondo: ciò che facevamo con l’altro, che eravamo con l’altro viene letteralmente seppellito. È la nostra morte attraverso la morte dell’altro.

Si rivela importante a questo proposito la sottolineatura di due aspetti che facilitano il processo di lutto, particolarmente delicati in tema di eutanasia animale perché spesso assenti, anche se per ragioni diverse. Ci si riferisce alla preparazione all’evento che protegge dal senso di confusione, e rende più capaci di accettare la realtà della perdita ed in particolare meno propensi alla collera. Le più gravi e prolungate reazioni di lutto si manifestano con maggiore probabilità, infatti, quando la morte viene percepita come improvvisa ed immatura, perché in quel caso non si riesce ad anticipare mentalmente, cognitivamente ed emotivamente lo stato di perdita. Mentre in relazione ai momenti che seguono la morte hanno grande incidenza i rituali di lutto ed inumazione, che riconoscono la grandezza dell’evento e offrono a chi ha subito una perdita un intervallo di tempo separato dalla vita normale. Il rito è lo strumento che la cultura, anzi, le culture hanno nel tempo elaborato per aiutare l’individuo ad affrontare momenti molto emotivi, che hanno un rilievo non solo individuale e sociale. Tutte le culture hanno, fin dai tempi più remoti, identificato e codificato riti funebri. Il rito rispetta il tempo interno del lutto e lo aiuta, dà significato e contiene l’emozione, è rassicurante; aiuta l’elaborazione ma soprattutto non lascia sola la persona.

L’esperienza di chi perde il proprio animale è nella società occidentale quella di una generale rimozione e banalizzazione dei suoi vissuti. Gli è negata la possibilità di esprimere ciò che prova perché la società non comprende e non accetta che si possa provare un legame profondo con un animale. Si vergogna, non sa bene come comportarsi. E così all’esperienza della perdita si aggiunge anche la solitudine, la sensazione di esclusione. Ma è anche loro impedito il ricorso a tutti quei riti che incanalano le mozioni e che aiutano il processo di lutto. Nessuno concepisce un congedo dal lavoro, nessuno accetta il pianto, manca un rito funebre socialmente condivisibile… La recente diffusione dei cimiteri per gli animali, o la possibilità di cremare, sono ancora poco conosciuti, non è facile reperire informazioni al riguardo… frequente è la ridicolizzazione. Non bisogna avere idee preconcette sul lutto, ancor di più sul lutto che segue la morte di un animale, codificando quanto sia opportuno o quanto convenga che duri. Quanto più emozionalmente siamo legati a chi si è perso più sarà intenso e lungo il lutto. Se si riesce ad immaginare a come gli animali accompagnino la vita di certe persone, a come ne scandiscano ritmi ed abitudini, a come ne regolino gli scambi sociali non si fatica a mettere a fuoco quanto e come si intrecci l’esistenza con la loro.

LE RAPPRESENTAZIONI CULTURALI DELL’EUTANASIA: IL RUOLO DEI VETERINARI

Le fonti veterinarie sono parche sul tema: offrono alcuni riferimenti di ordine farmacologico o metodologico, ma nulla SULLA MORTE. Eppure la comprensione dell’evento “eutanasia” passa anche attraverso quelli che sono i vissuti e le interpretazioni dei medici che ne sono gli esecutori materiali. I medici sono uomini e donne che vivono questo tempo, dunque sono soggetti alle letture interpretative culturali di cui si è appena detto, che relegano la morte ad un “rimosso collettivo”. I valori quali felicità, bellezza, giovinezza, efficienza fisica ed economica e lo sviluppo delle tecniche biomediche hanno avallato l’illusione dell’inesistenza delle barriere al controllo dell’uomo sulla natura, mutando il paradigma entro il quale è concettualizzata e vissuta la morte.
Per i medici nel concetto di cura è insito quello di successo e di guarigione. Non è lieve per un medico prendere atto di una simile impotenza: “non posso più fare nulla”. Si è formato professionalmente per guarire e risolvere le patologie ed i disturbi e considera istintivamente la morte altrui come un fallimento personale. I medici legano la loro arte alla salvaguardia della vita. Il Giuramento di Ippocrate ed il codice deontologico italiano sono concordi nel negare al medico qualsiasi possibilità di fornire al paziente un aiuto a morire. Il Giuramento in realtà è stato molto rimaneggiato e nel corso del tempo ha subito un processo di banalizzazione che ne ha travisato e stravolto profondamente il senso. Il Giuramento nacque da uno scrupolo diverso da quello della necessità di garantire una competenza tecnica: nacque per garantire un comportamento etico. All’epoca della sua codifica gli Asclepiadi si convinsero che il sapere non sarebbe bastato al dottore, che il pubblico avrebbe posto la differenza tra il medico “finto” e quello “vero” sulla base di criteri diversi da quelli meramente tecnici e professionali. Il Giuramento segna qualcosa di più della nascita deontologica professionale: rappresenta la piena coscienza delle responsabilità del medico nei suoi rapporti con il malato, la famiglia del malato e la società più in generale. Non era una dichiarazione manichea nei confronti della vita contro la morte… Era l’espressione ritualizzata di una filosofia di vita e di professione. Il corpus ippocratico infatti si occupa anche di tutto quell’insieme di pensieri e riflessioni che costituiscono da sempre una parte indispensabile dell’arte della medicina, una gamma completa di conoscenze al di là di quelle necessarie a comprendere i meri processi fisici della malattia.
Eppure molti medici odierni sembrano dimenticare questa tradizione, e si avvicinano ai pazienti con una lente scrupolosa ma circoscritta. Se tutto questo concerne l’area generale della medicina, a quella veterinaria si imputa una grave mancanza aggiuntiva: non esistono ricerche circa le reazioni del proprietario alla morte del proprio beniamino. Nonostante siano trent’anni che si sottolinea la complessità del rapporto tra l’uomo ed suo pet non si possiedono dati sul momento emotivamente più cruciale (e rivelante, probabilmente) di questo rapporto. Se ne può dedurre che probabilmente il veterinario troppo spesso cade nell’oblio di uno dei protagonisti, senza riuscire a consapevolizzare che ha sempre più a che fare con una diade, non con un singolo individuo. Il proprietario è un’entità sempre a margine dell’attività professionale, un missing che può costare assai caro…

Da questa mancanza di conoscenza ne discende la diffusa convinzione che l’eutanasia conduca invariabilmente o assai frequentemente alla perdita definitiva del cliente. Per di più si fa anche fatica a farsi pagare… Ecco che si “investe” poco sul momento.
È difficile stare accanto a persone che stanno male: si cerca di velocizzare i tempi perché la sofferenza del proprietario crea disagio e non si sa come affrontarla. Così come è pesante dover sopprimere una bestia, anche se ci si rende conto che è un atto pietoso nei suoi confronti.
Motivazioni e percorsi individuali e passione per la dimensione più relazionale del proprio lavoro consentono invece di elaborare una filosofia del proprio lavoro che includa anche la morte, invece di occultarla. Bisogna accettare di stare a metà tra il sentimento e l’accademia, possibilmente rimanendone equidistanti. “Il mestiere del medico mette in contatto con aspetti della vita – malattia, sofferenza, morte – che suggeriscono riflessioni che si spingono oltre la lama del bisturi per penetrare in quelle aree geografiche del pensiero che riguardano il nostro essere esseri umani. Conduce inevitabilmente a trascendere la dimensione tecnocratica se si vuole essere “una mano che pensa” (G. Macellari).
In un assetto ove la morte dell’animale da compagnia si trova ad essere sempre più “gestita” dal professionista, il medico non può fare a meno di reinventare uno scenario “vivibile” della morte, sia per l’animale morente sia per i vivi che gli stanno intorno, il medico stesso ed il proprietario.
L’EUTANASIA È UNA PRATICA AD ALTA DENSITÀ PROFESSIONALE, non priva di elementi gratificanti, almeno sotto il profilo affettivo. Certo deve essere frutto di valutazioni molteplici e deve connotarsi come una negoziazione tra veterinario e proprietario. Va “pensata”, fatto che implica la disponibilità a “pensare” la morte ed ad attraversare tutte le emozioni che essa implica. Possiamo fare a questo punto anche un riferimento al business ed al Practice Management: il 40% dei clienti cambia veterinario a causa di un’esperienza negativa all’atto del decesso del uso animale.
Ecco l’importanza della comunicazione, della cura del cliente, del coinvolgimento del cliente, con un’attenzione specifica a non separare la parte clinico-sanitaria della professione dal management. Se si vuole imparare a dare un buon servizio va intrapresa l’apertura ad un più profondo coinvolgimento emotivo, che la letteratura anglosassone descrive come “Pet Loss Counseling”. La scelta di questo comportamento dal punto di vista relazionale è l’assunzione dei RUOLI DI CONSULENZA (counseling) E DI MEDIAZIONE con importanti riverberi sull’elaborazione del lutto, grazie al bilanciamento di tre funzioni:

  • educazione (il parlare): dare informazioni sul processo in atto quando il cliente è pronto ed aiutarlo ad utilizzarle
  • supporto (l’ascoltare): è il sostegno, l’esserci, l’essere a disposizione
  • facilitazione (agire): chiedere, suggerire, rimandare e cercare di aiutarlo a prendere una decisione.

Una buona pratica di accompagnamento consente il contenimento di tutte le emozioni dei protagonisti (sensi di colpa, angoscia, senso di sconfitta, depressione), anche dei veterinari, migliorando il clima e la gestione del gruppo di lavoro. La morte è un trauma: la perdita è un trauma per tutti. A ciò si aggiunge uno stereotipo assai radicato da sconfiggere: quello che la sensibilità costituisca un difetto, che funzioni il model- lo forte e distaccato, quello, cioè, disumano.
Non è più questione di fuggire ma di sedersi, non di parlare ma di ascoltare. Di comunicare con il sorriso, una mano, lo sguardo. Il medico, prima condannato a guarire o a fallire, scopre allora un’altra filosofia della cura ed un altro senso della propria funzione: impara a “prescrivere sé stesso” secondo l’espressione del medico psicoanalista Balint. Non è il TO CURE, che è il curare per guarire ma è il TO CARE cioè il prendersi cura, condividendo pensieri e sentimenti col cliente, aiutandolo ad esprimere ciò che sente. Più il dolore è espresso più è condiviso e dunque sopportabile.
Se il veterinario crede in questo “servizio” e la sua è una disposizione autentica riuscirà ad aiutare più con l’atteggiamento che con le parole, vivendo l’eutanasia non come sconfitta. Pensando che lui per quella diade è davvero importante, se ne è preso cura per molto tempo, l’ha tutelata e protetta e pertanto nel momento della sua “trasformazione” DEVE essere lì.

Questa impostazione vede la medicina non al servizio della vita ma dei viventi: animali e persone, dunque anche al servizio dei morenti o di coloro che stanno accanto ai morenti. L’eutanasia in quest’ottica è una terapia del morire, del morire con dignità. Perché questo possa avvenire occorre però che i medici non abbiano paura di riconoscere che per quel paziente non c’è più nulla da fare e che non vivano la comunicazione del reale stato di cose come uno scacco personale, evitando perciò quegli interventi ed analisi che servono solo a creare l’illusione, prima di tutto in sé e poi nel proprietario, che si abbia ancora nel proprio bagaglio tecnico qualche strumento che possa essere usato. Quello è il momento di accompagnare il paziente alla morte ed il proprietario alla fine del rapporto concreto con il suo affetto. Ecco che la medicina viene a perdere carattere di sistematicità e diventa, primaria- mente, un gesto: un gesto di relazione.

L’eutanasia: ultimo atto terapeutico del medico veterinario per il benessere dell’animale

Con questo articolo si vuole trattare del coinvolgimento emotivo del Medico Veterinario nel momento in cui prende coscienza che non si può più fare nulla, sino ad arrivare all’atto di portare la morte a un animale. L’attenzione è anche focalizzata sul ruolo importante che ha il Medico Veterinario in questo suo atto professionale, in quanto unico attore di questa tragica rappresentazione, con protagonista la morte, che può in qualche modo, con la sua sensibilità, il suo modo di approcciarsi, la capacità di sostenere il padrone, alleviare le sofferenze dell’animale e anche del suo proprietario.

Perché parlare di EUTANASIA nella società attuale, così impregnata di voglia di vivere, di divertirsi, si successo e di affermazione e, riferendoci al rapporto con gli animali, di convivenza felice e spensierata? Infatti, la vulgata comune descrive il rapporto con l’animale, a prescindere dalle connotazioni sociali che ha assunto, solo basato sul piacere, idealizzato, come se noi padroni vedessimo il lato bello, i giochi assieme, le passeggiate nei boschi e, ora che la società si è aperta e sensibilizzata verso gli animali domestici, le vacanze condivise. In realtà la vita con un animale non è questo, o meglio, non è solo questo, c’è qualcosa di più profondo, di più intimo che emerge, e si materializza in certi momenti e il pericolo di perdere un fedele amico, quale può essere il nostro cane, o il nostro gatto, ma anche il coniglietto o un uccello, è uno di questi momenti. L’idea della morte, e si perché parlare di eutanasia significa parlare di morte e di morte data, anche, se come vedremo solo ed esclusivamente per alleviare una sofferenza che non ha un futuro con la risoluzione della patologia che l’ha determinata, non sfiora i proprietari dei cani o dei gatti, quando questi sono felici e pieni di vita. E non c’è da stupirsi di questo, in generale l’uomo moderno rigetta l’idea della morte per se stesso, non solo perché a nessuno piace morire, ma perché è un argomento arduo da affrontare. La morte è conosciuta solo dall’esterno, nessuno è tornato indietro a raccontarci cosa succede quando si oltrepassa la linea di non ritorno, è difficile da rappresentare, sia la nostra che quella degli altri, figuriamoci quella dei nostri animali. Ma la sensibilità verso di questi è cambiata, solo quindici, venti anni fa l’eutanasia, infatti era vista e vissuta come un evento normale, che veniva richiesta o proposta ogni qualvolta il problema clinico diventava complesso o non vi era certezza sulla guarigione del soggetto. Oserei dire che a volte è stata anche una “soluzione” abusata e di comodo.  Oggi non è più così, l’eutanasia è un atto meditato e applicato solo ed esclusivamente in quelle situazioni in cui la malattia apporta troppa sofferenza a un animale, è un atto pietistico verso un essere vivente che non ha più possibilità di guarigione e che soffre molto. 

Questo deriva da una nuova visione del rapporto con gli animali, secondo Curtis il benessere animale dipende dalla seguente gerarchia dei bisogni:

  1. bisogni fisiologici: che sono facilmente interpretabili ed esaudibili;
  2. bisogno di sicurezza: un po’ meno comprensibili, ma direi che oggi, per quanto riguarda gli animali domestici, anch’essi ben corrisposti;
  3.  bisogni comportamentali: che sono più difficili da comprende, ma che cominciano ad essere capiti e corrisposti in modo sempre più consono alle esigenze del cane del gatto e anche dei nuovi pets; in questi rientra certamente il diritto a un trapasso dolce e con meno sofferenze possibili.

L’eutanasia è un tema, che, per il Medico Veterinario di oggi non può esaurirsi con il trattamento delle tecniche per dare una morte la più indolore possibile, cosa per altro importantissima, parlando di benessere animale, ma implica una serie di riflessioni che riguardano il proprietario, il medico veterinario, la sistemazione dell’animale defunto. Per questo, se la tecnica medica ci appartiene, la “tecnica psicologica”, cioè come preparare il proprietario alla morte del suo animale, come dargli la notizia, come sostenerlo nel momento dell’iniezione, come aiutarlo dopo richiedono una sensibilità e una preparazione che ha sempre bisogno di affinamento. Se è vero, come ha detto Voltaire, che “gli uomini sono gli unici esseri viventi i quali sanno che moriranno” è anche vero che i proprietari degli animali domestici non sempre si rendono conto che ogni terapia è inutile e non fa altro che allungare le pene del loro amato, è nostro compito prepararli, e in tempo a questo. Per questo, a mio avviso, è necessario in certe patologie essere sempre sinceri e comunicare in modo chiaro con i padroni sia la prognosi e sia il rischio di morire che il cane o il gatto, o qualunque animale abbiamo in cura corrono. Il momento in cui pratichiamo l’eutanasia, è momento carico di emozioni e di tristezza, che ci vede protagonisti attivi, sia come esecutori materiali, sia come uniche persone presenti e che possono dare un aiuto e trovare le parole giuste per il padrone. E poi il lutto, altro momento difficile che richiede sensibilità, disponibilità e anche coraggio da parte del Medico Veterinario per accompagnare il padrone in questo percorso.

Quindi, comprenderete quanto sia necessario mettere in campo sinergie diverse e trattare l’argomento sotto più prospettive, emozionale, relazionale, del conforto e sostegno al padrone, legislativo, farmacologico e del consenso informato. Perché anche del consenso informato, perché è uno strumento in più di chiarezza, è un mezzo per creare un’alleanza terapeutica con il padrone del cane o del gatto o del coniglio ecc.. Concludo con una serie di considerazioni prese da un libro che tratta dell’eutanasia umana della dottoressa Serena Foglia, sociologa e psicologa, che a mio avviso sono pertinenti anche al tema dell’eutanasia in veterinaria: “La cultura moderna che nega la morte ha abbracciato anche il mondo della medicina che molto spesso non riconosce i limiti dei trattamenti della malattia, non ascolta, non ha attenzione al dolore.
Questa cultura è entrata nella scienza soprattutto in quella parte della scienza medica chiamata clinica, cioè quella che si occupa dell’essere umano durante la vita. Il medico nella sua formazione non riceve nessuna nozione per ciò che riguarda il processo del morire [io aggiungo tantomeno il Medico Veterinario, al quale hanno sempre insegnato a considerare la morte degli animali come una cosa necessaria (gli animali da reddito passano dallo status di animale a quello di cibo) per la sopravvivenza degli uomini] e raggiunge la laurea avendo come sogno o obbiettivo il successo terapeutico, inoltre ha un concetto di sacralità della vita anche quando questa per il malato nella sua fase terminale è solo dolore e sofferenza…”

Questo concetto era già espresso da Bacone che parlando di eutanasia, diceva: “Viceversa i medici si fanno scrupolo di non intervenire più sul paziente quando hanno dichiarato inguaribile la malattia, mentre a mio modo di vedere non dovrebbero escludere nessuna possibilità e insieme dare l’assistenza atta a facilitare e rendere meno gravi le sofferenze e l’agonia della morte.”. Bacone quindi usa il termine di EUTANASIA secondo l’etimologia corretta cioè di morte buona, ed esorta i medici a non intervenire solamente con lo scopo di guarire, ma anche, quando ogni cura è inutile, ad alleviare le sofferenze, in modo che il trapasso sia più accettabile.

Ma come dice sempre la dottoressa Foglia: “…quello che è importante è modificare i comportamenti oggi presenti nella classe medica. Si tratta di insegnare già negli ultimi anni di università i concetti del processo del morire e le cure del termine della vita”, questo, a mio avviso, ci aiuterà anche ad affrontare meglio il momento nel quale dobbiamo eseguire l’iniezione fatale, ci solleverà un po’ l’animo dall’angoscia, e qui parlo per me, ma penso che molti di voi siate nella mia stessa condizione, che ci attanaglia quando dobbiamo decidere che non c’è più nulla da fare per un animale che conosciamo da anni e per il quale ci siamo prodigati, con il suo padrone, per dagli la miglior vita possibile; perché non dargli serenamente la miglior morte possibile?